Un corpo-immagine, un corpo senza carne. E’ il paradosso odierno nell’ideale del corpo diffuso dai media, che ci spingono verso pratiche, prodotti, trattamenti, terapie e interventi per avvicinarci il più possibile al modello proposto. Un corpo considerato fondamentale per l’immagine sociale – essere accettati, rispettati, apprezzati, desiderati e desiderabili – ma da cui ci estraniamo nell’accezione di organismo vivente nelle sue espressioni fisiche, emotive, psicologiche. Il paradosso sta nel fatto che questo corpo così esaltato come immagine ideale, non lo si conosce, non lo si ascolta, non lo si abita. E così si vive spesso dissociati dal proprio corpo, per poi identificarsi in alcune sue manifestazioni – come il dolore – e in alcune parti – di solito quelle doloranti o che non piacciono. Come se il corpo non fosse un insieme, ma parti assemblate; come se non fosse la manifestazione dell’intero nostro essere, ma un abito prestato e, il più delle volte, scomodo. Ma noi non siamo la nostra sciatica, la nostra periatrite, il nostro alluce valgo, la nostra dislessia, la nostra scoliosi, noi siamo un sistema vivo, organico, intelligente, che interagisce con altri sistemi. Un sistema autoregolato in grado di identificare e di sussurrare i disagi, ma che poi è obbligato a urlarli se inascoltato.
In Occidente, limitati dalla dualità corpo-mente di matrice cartesiana, fatichiamo a considerare il corpo nella sua unità funzionale con la mente, che è poi la base del nostro sé, della nostra coscienza: “c’è un legame forte e permanente tra le zone del cervello che regolano il corpo e il corpo stesso… noi generiamo la mappatura del corpo che fornisce le basi del sé e si manifesta sotto forma di percezioni. Non potremmo avere una mente cosciente se non ci fosse interazione tra la corteccia cerebrale, il tronco encefalico e il corpo.” (Antonio Damasio, neuroscienziato). Si tratta dell’unità oggettiva e funzionale tra il corpo e la mente dichiarata da Moshe Feldenkrais oltre mezzo secolo prima delle ricerche che oggi dimostrano come le capacità del cervello siano influenzate dai sistemi sensorimotori.
Si tratta di cambiare paradigma e comprendere, facendone esperienza, che il corpo vivente – il soma – è la base del sé: il corpo siamo noi nell’unità funzionale con il nostro cervello, quindi con le nostre sensazioni, le emozioni, i pensieri, i sentimenti ed esso diventa la manifestazione concreta del nostro modo di muoverci nel mondo e nella vita. Vivere alienati dal proprio corpo significa quindi vivere alienati da sé, perché se non si abita il corpo, se non lo si ascolta e non lo si rispetta, non si può nemmeno sapere che cosa si desidera per sé, che cosa ci fa bene, di che cosa abbiamo bisogno e come prendercene cura. E se non ci abituiamo ad ascoltare e a prendere in considerazione i messaggi del corpo – del nostro essere autentico – rischiamo di passare la vita a delegare ad altri la nostra salute, le scelte per il nostro benessere, in ultimo la nostra felicità: specialisti ed esperti che secondo noi sanno come curare il nostro corpo dimenticato e disincarnato. Come scrive la collega Lea Kaufman nel suo libro “Apoderate de tu cuerpo”, quando invece ci riappropriamo del nostro corpo ci riappropriamo di noi stessi, della nostra autorevolezza, perché impariamo ad riconoscere le sensazioni, a leggere le percezioni, fidandoci di noi, in una consapevolezza incarnata: “Quando la tua attenzione è focalizzata sul tuo corpo, questo, per se stesso, inizia a lavorare meglio. E la cosa meravigliosa è che i cambiamenti che senti si verificano nel tuo cervello.”
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