Parlare di corpo e di cervello come entità separate non corrisponde alla realtà, perché di fatto il cervello, ossia l’attività neuronale, è in tutto il corpo. Per tanto tempo abbiamo pensato al cervello come la cabina di comando del corpo. In realtà si tratta di una “centralina” che si forma, si plasma, si modifica attraverso le esperienze corporee, in un’evoluzione continua (neuroplasticità). Abbiamo cellule neuronali dappertutto – cervello, cuore, polmoni, intestino, derma – connesse in un flusso informazionale: da fuori a dentro, da dentro a fuori e da dentro a dentro. Insomma, una vera e propria rete!
Diventa difficile, direi impossibile, trovare una linea di demarcazione tra pensare e sentire, o meglio, si può iniziare a concepire il pensiero come un sentito che viene elaborato a livello cognitivo. Abbiamo una mente incorporata e interagente, oltre che estesa in quanto funzionante in unità con l’ambiente: vissuti, relazioni, luoghi…
Il linguaggio di questo sistema neuronale è fatto di movimento, sensazioni, emozioni e tutto questo sentito è proprio nel corpo. La connessione con il corpo – anzi la nostra corporeità – diventa quindi la strada per la connessione con il nostro sé. A quel punto la parte razionale, analitica, anziché spiccare i suoi voli disancorati dal qui e ora, sarà al servizio del “pensiero sentito”, nel qui e ora.
Come facciamo a sviluppare il pensiero sentito, radicandoci nel vissuto corporeo? Affinando il sistema sensoriale. Gli strumenti a nostra disposizione sono i nostri sensi, in particolare la propriocezione e l’interocezione. Si chiama comunicazione bottom-up: il corpo informa il cervello, così come il cervello informa il corpo (comunicazione top – down). Si tratta di matchare queste due comunicazioni, mentre fino a ora nella nostra cultura abbiamo prediletto la seconda, come se il cervello appunto potesse comandare e decidere di ogni azione o reazione. Così non è: la parte consapevole può agire sui movimenti volontari, non su quelli sotto il livello di coscienza. Questo approccio ci porta da una visione meccanicistica a una visione sistemica, dinamica, il cui potenziale non è calcolabile o prevedibile. Il nostro cervello-centralina, potremmo dire connettoma, è infatti un’architettura dalla variabilità infinita. Moshe Feldenkrais, pioniere della neuroplasticità, o ancora meglio della bioplasticità, ha intuito come allenare questo potenziale infinito: usando il movimento e le sensazioni come processo conoscitivo di sé e apertura a un potenziale ricco di soprese. Questo significa che non è mai troppo tardi, che non è mai detta l’ultima parola, che non siamo fissati dal patrimonio genetico. Se è vero che il nostro “sistema” funziona con un programma base, è altrettanto vero che il programma può essere costantemente aggiornato.
E’ il motivo che mi ha fatto innamorare del Metodo Feldenkrais, il motivo che mi spinge ad approfondire la conoscenza di come funzioniamo, per trasferire a più persone possibili un messaggio di fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.
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