Embodiment, una parola che appare in molte discipline, tecniche e terapie ad approccio corporeo, significa letteralmente “incarnazione“. Termine che nella nostra cultura rimanda inevitabilmente alla sfera religiosa e forse è per questo che si preferisce utilizzare l’inglese, così da allargarne il significato. E’ comunque interessante a mio parere addentrarci nella parola italiana, superando una visione esclusivamente cristiana. Superandola sì, ma senza dimenticarla, perché se dio si è incarnato per entrare in relazione con l’umano questo sottolinea che per “essere”, per esistere, per entrare nella nostra dimensione, ci vuole un corpo. Ne consegue che siamo incarnati nel momento stesso in cui esistiamo in questa dimensione.
Il corpo (inteso come soma) non è scindibile dalla vita stessa e quindi essere incarnati – embodied – non è una scelta, è la categoria stessa del vivente.
La scelta è se vogliamo o no abitare il corpo, se vogliamo riconoscerlo e quindi riconoscerci e connetterci a esso e di conseguenza a noi stessi, se vogliamo viverci in esso o lasciarci vivere attraverso di esso.
Quando scegliamo di vivere il corpo, ci sentiamo integri e vitali.
Penso sia ormai decisamente da superare un’idea di corpo meccanicistica, in cui il corpo è percepito come un assemblaggio di parti, per aprirci a un’esperienza del vivente organica, unitaria, del corpo, e aggiungo anche in un senso allargato rispetto ai confini visibili: se ti metti in piedi, allunghi un braccio con le dita distese e lo porti su, giù, di lato, sappi che questo spazio attorno al tuo corpo, chiamato dai neuroscienziati “spazio peripersonale”, sei tu. Lo stesso vale per tutta l’area che puoi esplorare con le gambe. Il cervello infatti registra questo spazio come corpo (“The body has a mind of its own”, Sandra Blakeslee & Matthew Blakeslee).
Cavaliere e cavallo vengono mappati come un tutt’uno dal cervello, così come un genitore che tiene in braccio un neonato o due partner che fanno l’amore… e se siamo presenti nelle sensazioni corporee, tutto questo lo possiamo percepire con un senso di unità, integrità, connessione.
Possiamo percepire un senso di connessione, ma anche di espansione e di interconnessione. Potremmo chiamarla “tensegrità del vivente”, laddove tensegrità significa che qualsiasi movimento incide sull’insieme, movimento cerebrale e corporeo in una reciprocità sincrona e indivisibile.
Che cosa ci porta tutto questo? Nel mio lavoro mi porta ad aiutare le persone a percepirsi sempre più come unità, superando l’idea, anzi la convinzione, che se hanno un problema a un piede o a una spalla ci si debba occupare di quelle parti come fossero “a se stanti”. E che se vogliono migliorare un gesto, sia esso tecnico o artistico, ma anche appartenente al quotidiano, come raccogliere, spingere, trascinare, afferrare ecc. devono assecondare, assieme alle leggi fisiche e biomeccaniche, l’intenzione di quel gesto, l’orientamento, le direzioni, lo spostamento nello spazio e nel tempo richiesti da quell’azione.
Via via che le persone scoprono la realtà del loro corpo come sistema vivente e “rispondente” all’ambiente, diventano sempre più competenti di se stesse e iniziano a scoprire i collegamenti sia a livello muscolo-scheletrico, sia a livello di memoria corporea (ricordiamoci che nel corpo sono iscritti vissuti emotivi, storie familiari, traumi ecc.).
E la mente? La mente è utile al servizio di queste scoperte, perché traduce l’esperienza in cognizione, laddove possibile. Non tutto ciò che vive il corpo è infatti traducibile e interpretabile a livello mentale. Ci sono “switch”, cambiamenti nella vita di ognuno di noi che avvengono “a sentimento”… non sappiamo perché abbiamo scelto quella strada, ma sentivamo che era quella giusta per noi. Capita no? E per fortuna, aggiungo, perché ci sono informazioni nel campo che non possiamo afferrare se ci affidiamo soltanto alla mente.
Viviamo in una società in cui l’intuizione è spesso fraintesa con impulsività. L’intuito appartiene alle viscere, alla pancia, al cuore. Appartiene al Femminile che c’è in ognuno di noi. Mi auguro che sia rivalutato, per equilibrare una società in cui sembra che l’unico pensiero affidabile e valido sia quello analitico, logico, lineare.
Penso che siamo troppo spesso nella mente. Proviamo a essere un po’ più nel corpo, proviamo a riconoscere semplicemente che siamo embodied, incarnati… provando a stare nelle e con le percezioni, le sensazioni, i segnali corporei delle nostre emozioni; senza giudizio, senza voler in automatico trovare una spiegazione, ma con curiosità, apertura, fiducia in un ascolto gentile e rispettoso. Le risposte arriveranno dal corpo stesso…
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